2 maggio 2012

Il “rito proprio” e l’ “ermeneutica della continuità” sono sufficienti?


2 maggio 2012, Sant'Atanasio

G.L. Bernini, Sant'Atanasio sorregge la Cattedra di S. Pietro


La nostra Redazione, a seguito del risultato della visita canonica all’Istituto del Buon Pastore, riceve delle domande che possono essere riassunte dal titolo di questo intervento. La questione ci sembra avere un rilevante interesse ecclesiale, anche tenendo conto della sollecitazione a pronunciarsi racchiusa in articoli a riguardo come quello del superiore italiano della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Esporremo quindi alcune considerazioni ai nostri lettori, le quali – ovviamente – non impegnano se non la linea editoriale di questa libera rivista.

Il testo che  la Rev. da Pontificia Commissione Ecclesia Dei ha prodotto offre all’Istituto del Buon Pastore alcune indicazioni, d’ordine in parte pratico-giuridico e in parte teologico-ecclesiale, toccando anche le “specificità” dell’Istituto, sebbene in termini non perentori ma piuttosto di consiglio: la Commissione, in merito alla celebrazione della Messa tradizionale come prevista dagli Statuti, invita a parlare di “rito proprio”, citiamo letteralmente, “senza parlare di esclusività” (ovvero, invito a modificare gli Statuti fondativi?); e - su questo secondo punto con formulazione un po’ più forte - chiede altresì di diminuire la “critica, sia pure seria e costruttiva”, degli aspetti del Concilio Vaticano II che pongono interrogativi, per insistere maggiormente sull’ “ermeneutica del rinnovamento nella continuità”, adottando “come base” il “Nuovo Catechismo”.


In ordine a tali aspetti la questione, lungi dall’essere una mera discussione terminologica, ci appare cruciale per il futuro del Buon Pastore. Del resto la Commissione sembra aver voluto, nel suo insieme, proporre il proprio punto di vista teologico-liturgico; non trattandosi sempre di ordini formali essa lascia la scelta al Capitolo Generale.


La natura dello scritto di mons. Pozzo e le circostanze storiche

Il documento è il risultato della visita canonica a distanza di sei anni dalla fondazione dell’Istituto. Ricordiamo che il riconoscimento di quest’ultimo è stato voluto personalmente dal Santo Padre Benedetto XVI, offrendo la possibilità dell’ “esperienza della Tradizione” con due specificità, espressamente previste dagli Statuti (approvati da Roma) e in virtù delle quali abbiamo parlato di “avanzamento” della causa tradizionale: la celebrazione esclusiva della “Messa gregoriana” (secondo l’espressione del Card. Castrillon Hoyos) e la possibilità esplicita di una “critica seria e costruttiva” dei punti del Concilio Vaticano II che appaiano difficilmente conciliabili con la Tradizione.

Ora, dal punto di vista liturgico il testo afferma che sarebbe auspicabile uniformare allo “spirito” del più recente Motu Proprio Summorum Pontificum gli Statuti dell’Istituto, anteriori di un anno, eliminando la parola exclusive sostituendola con il termine “rito proprio” (espressione che, essendo già presente negli Statuti in due punti, è pertanto invocata in contrapposizione all’altra e non ad integrazione di essa). Notiamo tuttavia che tale termine, così come nella redazione approvata dalla Santa Sede nel 2006, non è incompatibile con la recente legislazione in materia, essendo piuttosto il riconoscimento giuridico d’una peculiarità. Nella Chiesa l’esistenza d’una legge generale (e, in questo caso, semplicemente di un orientamento) non impedisce il riconoscimento d’un diritto proprio: a fortiori se si è in presenza d’una precedente approvazione dell’autorità ecclesiastica. In questa prospettiva si può comprendere che tale indicazione della Commissione sia nell’ordine dell’invito.

Dal punto di vista teologico il documento invita a privilegiare l’ “ermeneutica del rinnovamento nella continuità” sulla “critica, sia pure seria e costruttiva”, e più in generale l’attitudine “in positivo”. La Commissione sembra riconoscere che l’attitudine del Buon Pastore non è quella di una critica selvaggia, irrispettosa, estremistica e temeraria, ma è rimasta nell’ambito degli impegni scritti del 2006. In quel contesto l’Istituto, non essendovi pieno accordo su talune questioni dottrinali, sottoscriveva un “accordo pratico-canonico” - comprensivo anche dei due punti summenzionati -, in uno spirito di filiale collaborazione con la Santa Sede e prendendo sul serio le dichiarazioni di S. Em. il Card. Castrillon Hoyos, il quale ribadì che, se si ha evidenza di incoerenze, “la critica costruttiva è un gran servizio da rendere alla Chiesa”.  


Una proposta di riflessione

Il citato testo è da accogliere col rispetto che è dovuto ad un documento proveniente da un Dicastero romano, e al contempo in quel medesimo spirito d’apertura e franchezza nel quale allora ci impegnammo. Esso contiene alcune indicazioni d’ordine pratico-giuridico che sono ispirate dalla sollecitudine in vista d’un perfezionamento della giustizia amministrativa che deve caratterizzare ogni società; preziosa ci appare la sollecitazione ad approfondire “il pastoralato di Cristo”; inevitabilmente in una giovane fondazione ci sono aspetti da migliorare, e la Commissione offre indicazioni che non vanno sottovalutate. Ma il documento chiede anche di riconsiderare due punti che costituiscono le specificità dell’ Istituto; su questo aspetto, il nostro punto di vista si discosta da quello del relatore.


La celebrazione “esclusivamente” nel rito tradizionale

Non vediamo una incompatibilità legislativa tra tale facoltà e il Motu Proprio Summorum Pontificum anche perché il riferimento in allusione che dice di non “escludere, in linea di principio, la celebrazione secondo i libri nuovi”, non è contenuto nella parte normativa, ma nella lettera argomentativa. Inoltre il passaggio può intendersi come raccomandazione a non escludere che altri sacerdoti cattolici celebrino secondo i nuovi libri, con le condanne generalizzate che talvolta sono state pronunciate in taluni ambienti (i quali hanno asserito categoricamente che la celebrazione secondo i riti nuovi è ipso facto materia di peccato mortale).  In ogni caso non è stato posto dal Supremo Legislatore come obbligo di legge. Anche l’Istruzione Universae Ecclesiae (l’art. 19 ad esempio) afferma l’impossibilità di un’esclusività che si accompagni ad attacchi violenti (sint infensae) e sentenze categoriche contro testi approvati dalla Santa Sede: il documento tuttavia non esclude la possibilità di nutrire riserve teologiche, non impedisce d’agire di conseguenza (si legga qui), non impone come obbligo il biritualismo.

Scrivemmo in passato che a questo proposito facciamo nostre le riserve che ebbe a condividere S. Em. il Card. Ottaviani nello scrivere la lettera di accompagnamento del Breve esame critico del Novus Ordo Missae. Tanti prelati del resto, non ultimo il Regnante Pontefice, hanno già scritto chiedendo una “riforma della riforma”: evidentemente ve ne sarà motivo… Ci sembra quindi che il termine “exclusive” bene esprima la nostra posizione e come tale fu ammesso nei nostri Statuti dalla Santa Sede, in una reciproca attitudine di lealtà. Senza volerci sostituire ad un futuro pronunciamento dell’autorità ecclesiastica affermiamo, con prudenza e moderazione ma senza nascondimenti, il nostro avviso; esso non è perentorio, ma vorrebbe esser franco e suppone una consequenzialità. Se così non agissimo e nascondessimo il pensiero dei nostri cuori, o peggio ancora se agissimo contro coscienza, mancheremmo realmente di rispetto a quell’Autorità che vogliamo servire nella chiarezza di posizioni. Pensiamo quindi che il termine exclusive debba essere mantenuto, anche in ottemperanza agli impegni da noi pubblicamente presi. Il Buon Pastore infatti non è nato per occuparsi del proprio interesse personale - vitam suam dat pro ovibus suis - ma per offrire una testimonianza della possibilità di una posizione ecclesiale che includa i citati presupposti.


La “critica seria e costruttiva”

In effetti in questi sei anni ci siamo sforzati – anche qui ottemperando agli impegni presi con la Santa Sede – di analizzare i documenti più recenti in uno spirito sereno, ossequioso, ma che non nascondesse aprioristicamente alcune reali difficoltà di conciliazione con la Tradizione. Sarebbe stato quest’ultimo un atteggiamento non solo poco scientifico teologicamente, ma soprattutto sleale nei confronti della Chiesa. Non basta? Questo posizionamento non esclude - altrettanto aprioristicamente - che alcuni punti problematici di taluni pronunciamenti possano essere interpretati secondo una lettura di “continuità dell’ermeneutica teologica”, pur presentando talvolta espressioni ambigue. La critica “seria e costruttiva” non esclude forzatamente l’eventualità, ove possibile, di leggere in continuità col Magistero anteriore alcune recenti novità; ma vuole esprimere anche la possibilità - e il dovere filiale - di far presente alla Santa Sede che alcune cose potrebbero richiedere una riconsiderazione. Stante il potere delle Chiavi, nel supremo ossequio alla Verità e nell’interesse della Chiesa, il Sommo Pontefice può farlo con testi magisteriali non infallibili, specie ove la continuità fosse non dimostrata. Se, con la nostra storia, deliberatamente offuscassimo tale umile testimonianza, ciò potrebbe essere la peggior mancanza di rispetto verso la Sede Apostolica; saremmo alla ricerca d’un immediato beneficio personale - foss’anche sociale - “pro domo sua”, tralasciando l’impegno in virtù del quale alcuni hanno aderito proprio a questa Congregazione, impegno che la Santa Sede ha approvato per iscritto nel vicino 2006.


Il pericolo dell’ubbidienza indebita o servilismo e della perdita di ciò che rappresentiamo

Abbiamo voluto offrire le nostre considerazioni, tenendo conto della natura dell’Istituto del Buon Pastore. Esso, se si privasse delle sue specificità statutarie, sarebbe – è l’avviso della nostra rivista – radicalmente denaturato e ci chiediamo : senza l’ “exclusive” e accantonando la “critica seria e costruttiva”, il Buon Pastore conserverebbe la sua ragione d’esistere ? Perché non preferire allora qualche altra Congregazione ? Dopo “lo spirito del Concilio” c’è proprio bisogno anche dello “spirito del Motu proprio”, eretto a norma ? Negli odierni frangenti, non è importante richiamare una chiara distinzione tra un’argomentazione e un obbligo, un invito e una legge, un’opinione (magari autorevole) e un chiaro insegnamento ? Se avallassimo l’impressione che le concessioni previste da accordi sono instabili, renderemmo un servizio alla Chiesa ? Uno studioso come mons. Nicola Bux ha evitato di “dogmatizzare”, enfatizzandola oltremodo, l’ermeneutica della continuità (che i progressisti continuano tranquillamente ad ignorare), dicendo sobriamente che essa “ha fornito un criterio per affrontare la questione e non per chiuderla”: saremmo credibili se volessimo essere (o simulare di essere) più ratzingeriani di mons. Bux ?

Peraltro, è realistico attendersi che la Fraternità San Pio X adotti, adesso o tra sei anni, gli indirizzi che ci vengono suggeriti ? Eppure, se determinati punti fossero giuridicamente incompatibili ed ecclesialmente impossibili, essi lo sarebbero, in uno spirito di diritto, tanto per la Fraternità San Pio X quanto per l’Istituto del Buon Pastore (che peraltro non ha preteso la “contropartita” dei preliminari): dobbiamo dunque ritenere, fiduciosi nella Provvidenza, che siano appunto degli inviti. Non misconosciamo che oggi vi sono nella Chiesa spinte disgregatrici e gravissime difficoltà; ma ci sembra che le citate peculiarità dell’Istituto del Buon Pastore, più che un ostacolo al bene del Corpo mistico, siano un umile e sincero servizio alla Chiesa.


Don Stefano Carusi, IBP