18 giugno 2009

Il magistero ordinario infallibile: l’Abbé Barthe difende la posizione di Mons. Gherardini


La nostra redazione ha ricevuto un’obiezione di un certo interesse da parte di uno dei nostri lettori in relazione al rapporto tra possibilità di critica teologica dei testi del Vaticano II e sottomissione dell’intelligenza al Magistero ordinario infallibile; si tratta di un dibattito annoso e particolarmente spinoso per l’esiguità di pronunciamenti sulla natura e sulle note del magistero ordinario, tuttavia cercheremo di abbordarne la complessità con una serie di interventi. Ringraziamo il contraddittore, che preferisce restare anonimo, per il suo intervento e invitiamo i nostri lettori che vogliano esprimere una diversa visione teologica a partecipare alla disputa.

Il testo del contraddittore:

Paolo VI definì, in un discorso del 12 gennaio 1966, il Magistero dell'ultimo Concilio come 'Magistero ordinario supremo'. Ebbene, il Magistero ordinario universale (se non si vorrà riconoscere come tale quello del Concilio si dovrà farlo rispetto al Magistero di tutti i vescovi sparsi per il mondo in unione con il Papa che da quarant'anni ha per oggetto le dottrine del Vaticano II), laddove proponga dottrine fondate sulla divina Rivelazione, è totalmente vincolante. Lo afferma il Concilio Vaticano I:

"Con fede divina e cattolica deve credersi tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata, e che è proposto dalla chiesa come divinamente rivelato sia con giudizio solenne, sia nel suo magistero ordinario universale".

Dunque, come accade ad es. per la dottrina riguardante la libertà religiosa contenuta nella dichiarazione Dignitatis Humanae (I, 2), da parte del fedele vi è l'obbligo di credere, di esercitare l'atto di Fede e non solamente l'obbligo di avere per essa profondo rispetto.

L'argomento è oggetto di scontri teologici piuttosto accesi, specie se si valutano alcune scuole teologiche, entrambe di tendenza tradizionale. La nostra redazione ha chiesto un parere ad un teologo che ha a lungo studiato la problematica in questione l'Abbé Claude Barthe. Nato nel 1947, laureato in storia e diritto, ha studiato al seminario tradizionale di Econe e all'Istituto Cattolico di Tolosa; ordinato sacerdote nel 1979 ha fondato e cura tuttora la rivista "Catholica". Tra le numerose monografie ricordiamo "Propositions pour une paix de l'Eglise" ("Proposte per una pace della Chiesa"), sulla situazione teologica e liturgica della Chiesa di oggi, ma anche opere di filologia come "Le IV livre du Rationel de Guillaume Durand de Mende", così come l'edizione francese commentata del "Cerimoniale Episcoporum" voluto dal Concilio di Trento; il suo ultimo lavoro, raccoglie uno studio sulle tendenze odierne tra politica ecclesiastica e scuole teologiche: "Les oppositions romaines à Benoit XVI" ("Le opposizioni romane a Benedetto XVI"). Conosciuto per la rapida intelligibilità delle sue tesi, l'abbé Barthe è anche apprezzato per l'immediatezza concisa dei suoi interventi sempre congiunti ad una ricerca approfondita.

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CONSIDERAZIONI SUL MAGISTERO ORDINARIO INFALLIBILE

dell'Abbé Claude Barthe

(traduzione dall'originale francese di G. Lenzi)

Vorrei in questa sede fare qualche riflessione sulle chiare analisi teologiche che Mons. Brunero Gherardini, ha espresso su "Disputationes Theologicae", le quali hanno anticipato e riassumono quelle del suo libro apparso in questi giorni su questa capitale questione, "Concilio Ecumenico Vaticano II, una discorso da fare". Allo stesso tempo questi miei accenni già pubblicati in buona parte sulla rivista "Objections", vogliono essere una risposta all'obiezione che è stata mossa a Mons. Gherardini su queste stesse pagine.

Bisogna ricordare con fermezza i diversi gradi che impegnano l'insegnamento supremo del Papa solo o del Papa e dei vescovi uniti a Lui. E' necessario soprattutto specificare che il magistero più elevato deve collocarsi intorno a due gradi di autorità:

1) Quello delle dottrine irreformabili del Papa solo oppure del collegio dei Vescovi (Lumen gentium N. 25 § 2, 3). Questo magistero infallibile al quale bisogna " obbedire nella obbedienza della Fede", può essere a sua volta proposto sotto due forme:

a) Le dichiarazioni solenni del Papa solo o del Papa e dei vescovi riuniti in Concilio.

b) Il magistero ordinario e universale(Dz 3011).

2) Secondariamente quello degli insegnamenti del Papa o del Collegio dei Vescovi col Papa, senza intenzione di proporlo in maniera definitiva, ai quali è dovuto "un assenso religioso della volontà e dello spirito" (Lumen gentium N.25 § 1). Si parla in questo caso, in genere, di "magistero autentico", sebbene l'espressione non sia stata fissata in maniera assoluta.

Il contraddittore, come già l'aveva fatto notare l'Abbé Bernard Lucien, nel suo libro "Les degrès d'authorité du magistére", difende il magistero ordinario ed universale, magistero infallibile misconosciuto, schiacciato se così possiamo esprimerci, fra il magistero solenne infallibile ed il magistero autentico non infallibile. Questa giusta rivalutazione tuttavia non obbliga assolutamente a farvi rientrare tutto l'insieme dei testi del Vaticano II, né tutte le parti di ciascuno dei testi e specialmente le dottrine che sono state oggetto di molte discussioni, nello specifico:

a) Il passaggio dalla dottrina tradizionale della tolleranza a quella della libertà religiosa contenuta nel n. 2 della dichiarazione "Dignitatis Humanae" del Vaticano II;

b) La riverenza da portare alle religioni non cristiane nel n. 2 della dichiarazione "Nostra Aetate";

c) L'ecclesialità "imperfetta" che sembrerebbe essere accordata alle religioni cristiane non cattoliche nel numero 3 del decreto "Unitatis redintegratio".

I padri conciliari non intesero mai innalzare questi propositi, così come altri, la cui formulazione è evidentemente incompiuta, a livello di magistero infallibile da riceversi nell'obbedienza della fede. Il fatto che essi non siano connessi alla professione di Fede Cattolica è quindi una questione di buon senso.

L'infallibilità del Concilio è paradossalmente un tema tradizionalista

In effetti la questione tanto discussa non è stata mai sollevata altrove se non nel mondo tradizionalista, di cui una parte di teologi, in maniera senza dubbio molto bene intenzionata, ma di cui in fin dei conti non si riesce a percepire l'utilità, vorrebbe che queste dottrine si accordassero perfettamente con il magistero anteriore. Ma a dire il vero mai nessuna istanza romana ha preteso la cosa ed ancor meno ha preteso farne una dottrina infallibile! D'altro canto i teologi "non tradizionalisti" non sono obnubilati da "Dignitatis humanae", ma da "Humanae vitae". La loro letteratura a proposito dell'autorità del magistero è immensa, ma essa si occupa – o almeno si occupava fino a "Ordinatio sacerdotalis" sull'impossibilità di ordinare preti le donne – solo del valore dell'enciclica di Paolo VI sull'immoralità intrinseca della contraccezione. Certamente qualche rarissimo autore, tacciato di massimalismo, ha sostenuto che la dottrina del N. 14 di "Humanae vitae" fosse Magistero Ordinario Universale (espressa dal Papa ed approvata dai vescovi in comunione con Lui), magistero di conseguenza infallibile: si tratta dei moralisti C. Ford e Germain Grisez, ed del P. Ermenegildo Lio, i quali hanno inutilmente fatto pressione affinché questa infallibilità fosse riconosciuta ufficialmente.

Per tutti gli altri teologi, "Humanae vitae" non voleva essere altro che "magistero autentico" (e ciò ci appare come un fatto storicamente certo, anche se noi consideriamo, da parte nostra, che questa dottrina in sé stessa sia di fatto infallibile, in quanto conseguenza diretta della legge naturale).

I teologi della contestazione sostengono che una dottrina non sia vincolante se semplicemente autentica. I teologi, invece, favorevoli a "Humanae vitae", al seguito di Giovanni Paolo II, affermano che benché non sia infallibile, sia vincolante in maniera assoluta. Ma costoro hanno dovuto ammettere che può essere prudentemente discussa. Così anche S.E.R. Mons. William Levada, allora Arcivescovo di Portland: " Visto che l'insegnamento certo, ma non infallibile, non comporta l'assoluta garanzia a proposito della sua veridicità, è ben possibile, per una persona che sia arrivata a delle ragioni veramente convincenti, giustificare la sospensione dell'adesione."

Se quindi "Humanae vitae", che è nella linea della continuità con l'insegnamento anteriore a riguardo della condanna della contraccezione, non è stata mai proposta come infallibile, a maggior ragione "Dignitatis humanae", la quale propone in una maniera che può essere intesa in diversi modi, una dottrina che ha tutte le apparenze di una novità, non può avere questa pretesa. L'argomento, sicuramente insufficiente se preso in se stesso, ci rimanda ad un'inquietudine delle origini per quanto riguarda l'infallibilità, la quale é introdotta dal famoso fine semplicemente "pastorale" del Concilio.

Il contesto: un Concilio "semplicemente pastorale", cioè "semplicemente autentico"

All'origine di tutto c'è la dichiarazione preliminare di Giovanni XXIII nel suo discorso " Gaudet mater Ecclesia" del 11 Ottobre 1962: visto che una dottrina infallibilmente definita è già stata sufficientemente espressa dai concili precedenti, ora non resta che presentarla "nella maniera che corrisponde alle esigenze della nostra epoca" e dare attraverso quest'azione "un insegnamento di carattere soprattutto pastorale". Il punto cruciale è dunque sapere se il Concilio abbia potuto essere infallibile senza volerlo veramente e ciò per il solo fatto che pronunciava delle dottrine che adempivano oggettivamente le "condizioni" tipiche degli enunciati che devono esse fermamente accettati e creduti. Ma bisognerebbe anche valutare la reale pertinenza della questione.

Il Vaticano II è incontestabilmente un concilio eccezionale, unico nel suo genere, in tutta la storia della Chiesa, il quale ha provocato un sommovimento senza eguali nella fede e nella disciplina. Non si può dubitare che richiami un certo numero di insegnamenti tradizionali (come quello dell'infallibilità per esempio), e che abbia prodotto dei bei testi (sulle missioni o sulla Rivelazione per esempio). Ma è impossibile ragionare teologicamente fuori dal contesto pregnante del suo svolgimento e delle sue conseguenze, nel quale il fatto di volere attenuare le chiusure della dottrina tradizionale sembrava naturale nonché necessario per realizzare una "apertura verso il mondo". In questo contesto "pastorale", i Padri conciliari, coltivando una certa ambiguità che permetteva di scioccare un po' meno i propri contemporanei, i quali giudicavano come "tirannico" per le coscienze moderne, il potere di "scogliere e legare", hanno dovuto semplicemente lasciarsi trasportare dalla corrente generale. Questo Concilio ha si insegnato, ma "pastoralmente". Si può fare un parallelo in chiave analogica (un po' lontano ma che può illuminarci) con i sacramenti. La loro validità è dipendente dell'uso "serio" fattone dal ministro e richiesto dal rito essenziale (materia e forma), uso che manifesta oggettivamente che ha l'intenzione di fare ciò che la Chiesa vuol fare. Un uso "serio", cioè grazie al quale è visibile, secondo il senso comune, che il ministro vuole veramente compiere il rito efficace. Così un prete che, nel contesto di una semplice lezione di catechismo, compie i gesti e pronuncia le parole di un sacramento ciononostante non compie l'atto sacramentale. Supponiamo, per favorire la nostra riflessione, che un sacerdote, in un contesto ambiguo, lasci intendere almeno come idea diffusa, che non vuole veramente compiere un atto sacramentale formale (cosa che d'altronde capita oggigiorno in certe cerimonie). Quest'atto sarebbe almeno di validità discutibile. Mutatis mutandis, la situazione a-magisteriale che ha preceduto il Vaticano II rende almeno dubbia una delle specificità del Concilio, e non la meno importante, quella della volontà del Papa e dei vescovi sull' obbligo all'adesione. Invece, anche dopo tutte le dispute per l'interpretazione che conosciamo bene, è perfettamente presente la chiara volontà di "fissare una certa linea". Il Concilio Vaticano II ha creato una "disposizione dell'animo", ma non ha creato nessun corpo dottrinale. I teologi non-tradizionalisti, quasi unanimemente, non hanno mai smesso di conservare la spiegazione di "pastorale" come praticamente sinonimo di "autentico", cioè di non infallibile.

L'interpretazione degli autori: una chiara volontà di non definire

In ogni caso, le testimonianze ufficiali sono concordi sulla volontà di non "definire". A due riprese (6 marzo 1964, 16 novembre 1964), la Commissione Dottrinale, alla quale era stato chiesto quale dovesse essere la qualifica teologica della dottrina proposta nello schema sulla Chiesa (e la domanda mirava soprattutto alla dottrina della collegialità), rispose: "Tenendo conto della pratica conciliare e del fine pastorale dell'attuale Concilio, quest'ultimo definisce solo le cose concernenti la Fede e la Morale che esso stesso avrà esplicitamente dichiarato tali".

Paolo VI spiegò che la cosa non era avvenuta. Una volta terminato il Concilio ritornò in effetti due volte sulla questione. Una prima volta, nel discorso di chiusura del 7 dicembre 1965: "Il Magistero (..), pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l'attività dell'uomo". Una seconda volta nel discorso del 12 gennaio 1966: "Vi è chi si domanda quale sia l'autorità, la qualifica teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai suoi insegnamenti, sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti l'infallibilità del magistero ecclesiastico (…), dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell'autorità del supremo magistero ordinario; il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti".

La redazione di questi testi è in certa misura imbarazzata. Li si può interpretare in due modi a seconda che si insista sull'uno o l'altro versante della dichiarazione essenziale:

1) il concilio non ha mai fatto uso di "definizioni dogmatiche solenni impegnanti l'infallibilità del magistero ecclesiastico", ma ha potuto far uso del magistero ordinario universale (infallibile). La cosa sarebbe sufficiente a fare del Vaticano II un Concilio "a parte" nella storia della Chiesa, il quale insegna su "materie nuove" (l'ecumenismo) ma rifiutando di definire;

2) il Concilio non ha mai fatto uso di "definizioni dogmatiche solenni impegnanti l'infallibilità del magistero ecclesiastico". Se non ha mai fatto uso di definizioni solenni è perché non ha voluto essere infallibile. Il che conferma il fatto che questi testi evitino accuratamente di parlare di "obbedienza della fede": "(Questo Concilio ha tuttavia) profuso il suo autorevole insegnamento sopra un quantità di questioni che oggi impegnano la coscienza e l'attività dell'uomo"….. "ha munito i suoi insegnamenti dell'autorità del supremo magistero ordinario; il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli". La qual cosa rinvia all' "assenso religioso della volontà e dello spirito" richiesto dal magistero "palesemente autentico", e non già all'"obbedienza della fede" richiesta dal magistero infallibile.



Il buon senso: il rifiuto di una "definizione forte" manifesta logicamente il rifiuto di una "definizione leggera"

Nel caso volessimo supporre che siano state scartate chiaramente soltanto le definizioni solenni, resterebbe tuttavia qualcosa di incomprensibile: il Vaticano II avrebbe rifiutato le "definizioni forti" secondo un'espressione chiara e incontestabile (il magistero solenne), nella volontà tuttavia di accrescere il contenuto del Credo facendo scivolare alcune "definizioni leggere" (il magistero ordinario e universale). Inoltre i testi del Concilio – prescindendo dal contesto generale e dalle interpretazioni degli autori - contengono dei tipi di proposizione che, in un altro concilio, aldilà di questa congiuntura nella quale ci si rifiuta di porre una regola di fede, si sarebbero potuti considerare come definizioni solenni. E' il caso della sacramentalità dell'episcopato (che nessuno, è vero, metteva più in dubbio), oppure a proposito della "sussistenza" della Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica (del tutto nuova, ma il cui senso oscuro è ancora da precisare). Riguardo alla definizione della libertà religiosa, essa è formalizzata: "questa libertà consiste: ecc...; si fonda sulla dignità stessa della persona umana quale si conosce sia per mezzo della parola rivelata di Dio, sia mediante la stessa ragione", Dignitatis humanae, 2,1. Inoltre, ogni testo conciliare, ivi compresa la dichiarazione Dignitatis humanae è seguito da una formula come : "tutte e ciascuna delle cose proclamate in questa dichiarazione piacquero ai Padri del Concilio. E Noi in virtù del potere apostolico che abbiamo da Cristo, in unione con i venerabili Padri, Noi l'approviamo, stabiliamo e decretiamo nello Spirito Santo". A Firenze, Trento o al Vaticano I, non sarebbe stato impossibile che ci si fosse trovati in presenza di un dogma da credere.

Eppure il commento più autentico che sia possibile, in quanto emana dagli autori stessi dei documenti, lo afferma senza ambiguità: non sono dei dogmi. Malgrado le apparenze, o malgrado la necessita intrinseca. Joseph Ratzinger commentava in un complemento all'opera classica di riferimento in Germania, il Lexicon fur Theologie und Kirche : "il Concilio non ha creato nessun nuovo dogma su nessuno dei punti abbordati. (…) Ma i testi includono, ognuno secondo il proprio genere letterario, una proposizione ferma per la loro coscienza di cattolici". Soltanto una "proposizione ferma": non l'obbligo a credere. Ciò che d'abitudine in un Concilio dovrebbe comportare l'impegno del magistero solenne non lo ha comportato nel caso del Vaticano II, quindi e a maggior ragione, se valutiamo il magistero non solenne, il quale, con la grande difficoltà che esso comporta nel discernimento del grado di impegno, si troverà al di sotto dell'infallibilità, altrimenti detto sarà semplicemente autentico.

Inoltre, qualunque ipotesi si voglia considerare, "nessuna dottrina è considerata come infallibilmente definita se la cosa non è stata stabilita in maniera manifesta" (CJC, can. 749 c. 3). L'importanza di questo canone è enorme perché legata all'appartenenza alla Chiesa. In effetti tutti sono obbligati a evitare ogni dottrina contraria", tenentur devitare (CJC, can. 750). E chiunque nega una verità cade nell'eresia (can. 751). (Allorché nulla di simile succede a colui che rifiuta una verità del "magistero autentico": "i fedeli avranno cura di evitare ciò che non concorda con questa dottrina", curent devitare, can. 752). La cosa deriva, del resto, dal principio generale che vuole che non si imponga mai un fardello senza motivo, e dunque che ciò che è più esigente non si presume: "le leggi che impongono una pena (…) sono di interpretazione stretta" (can. 18).

Provare a superare la difficoltà

In definitiva ci si potrebbe chiedere se il dibattito stesso, oltre al fatto che non interessa affatto il mondo della teologia "conciliare", seppur interessato in prima persona, non sia del tutto inutile. Tutti i partecipanti al dibattito, o quasi, sono d'accordo sul fatto che alcune precisazioni magisteriali sui punti apparentemente o realmente anti-tradizionali del Vaticano II, sarebbero in ogni caso qualcosa di estremamente opportuno. Noi siamo per parte nostra convinti che queste precisazioni non possono arrivare se non per mezzo del solo "gioco" dello sviluppo omogeneo del magistero (del magistero in quanto tale, infallibile) confrontato ad una crisi della fede, va detto che questo movimento è già in gestazione in atti tra l'altro come Veritatis splendor e Dominus Jesus.

Nell'attesa di queste precisazioni, che arriveranno ineluttabilmente, ma che è cosa buona sollecitare presso i pastori e i dottori, non si potrebbe parlare ad esempio di "magistero incompiuto"? "Magistero incompiuto", nel senso che quando ha abbordato soggetti nuovi, la volontà di insegnare del Vaticano II non è andata fino in fondo, fino all'infallibilità, o che nel caso in cui sia pervenuto a questa infallibilità non ha emesso altro che dei "canovacci" ("brouillons") di dottrina infallibile? Parlando di "magistero incompiuto" si lascerebbe ai teologi del futuro la possibilità di dibattere a piacimento sul fatto che il Vaticano II, a proposito di ecumenismo, di libertà religiosa, dello status delle religioni non cristiane, è stato in seguito sia rettificato, sia completato. Ciò che resta in ogni caso fondamentale per il bene della Chiesa è che la confessione della fede possa essere rimessa su un agevole cammino grazie ad un magistero preciso e chiaramente infallibile.